L’ospedale, lo stato vegetativo. Lei a letto ascolta ogni cosa. Poi piange ed è la libertà.

Dopo 200 mila copie vendute in Francia, il libro-denuncia sulla medicina senz’anima

apparenza sembra in coma irreversibile.

Stavano per staccare la spina, ma io ero viva e sentivo tutto»

DI MASSIMILIANO CASTELLANI

Nei Mandarini Simone de Beauvoir ha scritto: «In tutte le lacrime indugia u­na speranza…». Ad Angèle Lieby, è bastata una sola, ma preziosis­sima lacrima, per uscire dal buio in cui era precipitata e per torna­re a sperare di poter vivere anco­ra. Prima del dramma, viveva dentro un quotidiano semplice, ma felice, condiviso con il marito Ray nel loro appartamento di Schiltingheim, alle porte di Stra­sburgo, una figlia Cathy che «ci ha resi nonni di due splendide ni­poti, Célia e Mélanie», racconta Angèle. Sì perché la sua storia è una di quelle che una volta scam­pata, è il caso di dirlo, «miracolo­samente alla morte», non poteva non essere raccontata. Angèle che di mestiere faceva l’operaia in una fabbrica che produce car­relli per i supermercati («installo le monetiere sulle bar­re metalliche») per scrivere questa storia che in Francia ha fatto versare tante lacrime di commozione (200 mila copie vendute nelle edizioni Les Are­nes), ha chiesto aiuto a un giornalista, Hervé de Chalendar, con il quale ha apposto la sua firma a Una lacri­ma mi ha salvato (E­dizioni San Paolo, pa­gine 168, euro 14,90)).

Un libro che scortica le coscienze e che è stato scritto per «dare voce a colui che la medicina deve servi­re: il paziente». Un j’accuse, ma senza rancore, rivolto a quel «5% di dottori» specia­lizzatissimi nella loro branca, ma troppo spesso superficiali e poco sensibili dinanzi al dolore del malato e dei suoi familiari, ai quali manda a dire: «Ciò che prova un paziente non è sempre la maggiore preoc­cupazione dei grandi medici. A­vere tra le mani la vita di un esse­re umano non ti trasforma neces­sariamente in un dio».

Sintesi di una vicenda realmente accaduta, in cui la fantasia anco­ra una volta viene ampiamente superata dalla realtà. Il 13 luglio del 2009, vigilia della festa nazio­nale francese, Angèle avverte un formicolio e accusa una terribile emicrania. Viene ricoverata d’ur­genza all’ospedale di Strasburgo e i medici cominciano a branco­lare intorno a una diagnosi nebu­losa che si risolve in maniera spicciola con la decisione di far ‘cadere’ la paziente in coma far­macologico. Ma il buio indotto e ‘terapeutico’ diventa assoluto.

«Nella mia notte arrivano solo singhiozzi soffocati. Ray è andato via e mi sento persa. Mi accorgo che quello che provo non corri­sponde a ciò che trasmetto».

Questa donna che fino al mattino di quel 13 luglio si sentiva in for­missima e, a detta di tutti, molto più giovane dei suoi 57 anni, era misteriosamente sprofondata in un pozzo cieco, senza nessuna via di risalita.

Una situazione surreale, il cervel­lo di Angèle aveva spento la luce, lasciando però aperto il sonoro, all’insaputa di tutti. Le sue orec­chie si erano sostituite agli occhi: «Devo sentire tutto per capire co­sa succede». Una sensazione sgradevole, l’amaro in bocca di chi resisteva ed esisteva ancora dentro un corpo (alimentato da un sondino, attaccato ai macchi­nari) che per qualche medico però era ad un passo dall’ultimo viaggio. «I medici stavano per staccare la spina, ma io ero viva e sentivo tutto», scrive Angèle che non solo sentiva, ma era «iper­sensibile ». Il suo corpo non era totalmente inerte, percepiva sulla sua pelle il peso di chi la stava medicando, gli aghi delle punture e delle flebo, l’angusta pratica giornaliera del catetere. Ma so­prattutto riusciva ad ascoltare le voci e la tristezza, condivisa nel suo silenzio, delle persone che entravano «due alla volta» nella stanza.

Eppure alcuni di quei signori in camice bianco, dopo appena tre giorni di coma e un paio di EEG in cui si riscontravano «rallenta­menti, deterioramenti, peggiora­menti dell’attività cerebrale», il 17 luglio avevano sentenziato la fine imminente. Un medico che noi chiameremo «dottor Sensibi­lità », consigliò il povero Ray di andare a prenotare una bara e un posto al cimitero per sua moglie.

Nella sua prigione interiore, in quei momenti Angèle subiva tra­gicamente «un’insopportabile impotenza davanti a un’aggres­sione. Una sensazione di non es­sere altro che un oggetto che si può buttare in qualunque mo­mento ». Quell’ ‘oggetto’, era una creatura che ascoltava il suo car­nefice distratto e indifferente, pronto soltanto a seppellirla vi­va… Poi all’improvviso uno spi­raglio. Il giorno dell’anniversario del suo matrimonio, il 25 luglio, Cathy gli confidava il desiderio di avere un terzo figlio e che avreb­be tanto voluto che la sua nonna potesse conoscerlo, mentre di­sperata gli sussurrava: «Mamma non devi lasciarci…». Dagli occhi di Angèle a quel punto scese una lacrima. Il segno tangibile di una reazione vitale seguita da movi­menti dapprima impercettibili, poi sempre più nitidi e frequenti di chi stava scalpellinando la co­razza maligna che finalmente fu identificata come sindrome di Bickerstaff (malattia autoimmu­ne del sistema nervoso centrale).

Alla lenta ripresa fisica e alle la­crime di gioia si accompagnava il ritorno al sorriso, il suo e quello delle persone che l’avevano so­stenuta e alle quali va ancora la sua immensa gratitudine.

«Ogni risata che esplode in questi corridoi impersonali è uno schiaffo alla disgrazia», racconta Angèle che non dimentica quella che oggi, quattro anni dopo, defi­nisce la sua «piccola esperienza», dalla quale ha tratto un insegna­mento fondamentale: «So che bi­sogna superare le proprie soffe­renze e avere fiducia nella vita. Se oggi mi sento più fragile del soli­to, domani posso avere la fede di riuscire a superare le montagne».

Fede assoluta nella vita e una ve­rità da trasmettere a chi in questo momento sta brancolando nel buio dal quale lei è tornata: «Una persona può essere perfettamen­te cosciente anche se all’appa­renza sembra in coma irreversibi­le ». Angèle ha ripreso in mano la sua esistenza, non teme le sue fragi­lità e non ha neanche più paura di invecchiare. Osserva il mondo con gli occhi disincantati della creatura ‘nata due volte’: «Ora so che la vita non è una certezza».

Tornata ai suoi amori e al tenero calore della vita domestica, Angè­le può sorridere persino del bi­glietto ritrovato del suo funerale e il ringraziamento più grande va a quella lacrima preziosa: «Avrei voluto poterla tenere per sempre, conservarla in una scatola come un gioiello e poterla ammirare di tanto in tanto».

Tratto dal quotidiano Avvenire